Lavoro culturale 3

È il 14 novembre 1971. Luciano Bianciardi muore nella sezione D, letto 106, del reparto di Medicina Interna al quinto piano dell’Ospedale San Carlo di Milano. Era stato ricoverato 19 giorni prima, dopo essere stato raccolto per strada «in avanzato stato di coma etilico» come dice la cartella clinica.

Al suo funerale si presenteranno in quattro. «Era fatto così Bianciardi: aiutò talmente tanto i lettori da dimenticare di aiutare se stesso» scrive Gian Paolo Serino, critico letterario, firma de il Giornale, e ora autore di Luciano Bianciardi. Il precario esistenziale, un riuscito invito alla lettura dello scrittore toscano composto da uno stringato ma brillante saggio, una accurata bio-bibliografia e una selezione di provocatorie pagine di Bianciardi.

Bianciardi nasce nel 1922 a Grosseto in una famiglia borghese. Negli anni Cinquanta, agli inizi come giornalista, resta segnato da un episodio: l’esplosione di un pozzo minerario a Ribolla nel quale perdono la vita 43 persone. Alla fine del 1954 Bianciardi emigra a Milano, per lavorare come redattore della Feltrinelli. Si dedica anche alle traduzioni e alla narrativa. Si direbbe una carriera ben avviata ma Bianciardi vive sotto il segno dell’inquietudine intellettuale. Entrato nell’editoria dalla porta principale, ne esce con un licenziamento dovuto all’impossibilità di adattarsi a un mestiere troppo burocratico. La parallela attività giornalistica sembra condurre al benessere. Indro Montanelli, autore della prima recensione de La vita agra, offre un contratto di collaborazione col Corriere della Sera: trecentomila lire al mese (circa cinquemila euro). Bianciardi rifiuta. Non si sentirebbe libero. Preferisce riviste come ABC, Playmen, Le Ore, Il Guerin Sportivo all’epoca diretto da Gianni Brera. Mentre traduce Saul Bellow, Aldous Huxley, Henry Miller, John Steinbeck e William Faulkner, Bianciardi fa il suo esordio in proprio.

Nel 1962 esce l’ultimo capitolo della «trilogia della rabbia». Dopo Il lavoro culturale e L’integrazione, arriva in libreria La vita agra. Scrive Bianciardi: «La vita agra va bene, hanno messo in vendita la quarta edizione, ci avviciniamo alle ventimila copie, hanno ceduto i diritti per la traduzione in inglese». De Laurentis compra quelli cinematografici, il film, diretto da Carlo Lizzani, è nelle sale nel 1964. Protagonista Ugo Tognazzi. Il successo rende felici tutti meno Bianciardi. Quel libro «è la storia di una incazzatura in prima persona singolare». Anche i lettori avrebbero dovuto incazzarsi. Invece è un «tripudio di applausi». Non è servito a nulla.

L’anarchico toscano avverte il rischio di essere inghiottito da quella società ipocrita che il protagonista de La vita agra vorrebbe far saltare in aria, e non solo metaforicamente. Alle presentazioni si sente un clown, come racconta in una lettera: «Viene con me Domenico Porzio e a volte sembriamo due comici da avanspettacolo: sempre le stesse battute, e sempre la faccia di chi le dice per la prima volta. Mi comincio a vergognare». Un’altra lettera è ancora più disincantata: «Finirà che mi daranno uno stipendio mensile solo per fare la parte dell’arrabbiato italiano». Non si può stare al contempo dentro al mercato e fuori da esso. Anzi. Il mercato ha bisogno di ribelli a contratto come sanno bene gli intellettuali italiani che giocano alla rivoluzione a patto di essere ben retribuiti. Ma Bianciardi non vende l’anima. E sprofonda nei fumi dell’alcol, morendo a 49 anni.

Serino disegna un ritratto umano commovente senza perdere mai di vista il vero obiettivo: mettere in luce l’originalità di Bianciardi, capace di interpretare con lungimiranza i cambiamenti della società. Allo scrittore, furono subito evidenti i pregi ma anche i rischi del boom economico. Da un lato, l’operaio poteva accedere ai beni di consumo che giustamente desiderava. Dall’altro, si apriva un’epoca di conformismo in cui l’appiattimento culturale, di cui la televisione era testimonianza eloquente, avrebbe spadroneggiato. In quanto alla politica… Beh, per Bianciardi la politica, intesa come servizio alla comunità, era finita da un pezzo: non c’era niente da salvare, semmai c’è da rifare tutto da capo.

Nel 1959 Bianciardi scrive su L’Avanti! di Mike Bongiorno e di Lascia o raddoppia?: «L’altro giovedì, annunciando la fine della sua trasmissione, Mike Bongiorno aveva gli occhi appesantiti e la voce rotta dalla commozione. A guardarlo cinicamente poteva anche far ridere, con quella faccia più pecorile del solito, ma sarebbe stato ingiusto farsi beffa di un uomo così onestamente mediocre. Bisogna dire che Mike Bongiorno meritava il successo che ha avuto proprio in virtù del suo schietto, lampante grigiore… I nostri presentatori della televisione avevano successo e lo hanno, in quanto riassumono ed esprimono certi difetti, certe tare nazionali. Mike Bongiorno li riassume più di tutti, ed ecco perché lo possiamo stimare il più mediocre, quindi il più bravo».

Bianciardi anticipa il saggio Fenomenologia di Mike Bongiorno che, nel 1961, ha fatto la fortuna di Umberto Eco (esattamente due anni dopo). Umberto Eco scrive: «Mike Bongiorno convince dunque il pubblico, con un esempio vivente e trionfante, del valore della mediocrità. Non provoca complessi di inferiorità pur offrendosi come idolo, e il pubblico lo ripaga, grato, amandolo. Egli rappresenta un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello. Nessuna religione è mai stata così indulgente coi suoi fedeli. In lui si annulla la tensione tra essere e dover essere. Egli dice ai suoi adoratori: voi siete Dio, restate immoti». Commenta Serino: «Con questi passaggi lampanti non voglio dimostrare che Umberto Eco abbia plagiato Bianciardi, ma solo dimostrare come Luciano Bianciardi abbia anticipato la potenzialità della televisione e dei suoi protagonisti».

E nella critica al consumismo, con relativo pericolo di conformismo, Bianciardi ha anticipato anche il Pier Paolo Pasolini corsaro, quello degli articoli pubblicati su varie testate tra il 1972 e il 1975. Si legga questo passaggio de La vita agra: «Bastano pochi mesi perché chiunque si trasferisca qui si svuoti dentro, perda linfa e sangue, diventi guscio: tra 20 anni tutta Italia si ridurrà come Milano». O ancora prima questo passo de L’integrazione: «Questi sono i ceti medi italiani… Neanche i loro bisogni sono genuini: pensa la pubblicità a fabbricarglieli, giorno per giorno. Tu vorrai il frigorifero, dice la pubblicità, tu la macchina, tu addirittura una faccia nuova. E loro vogliono quel che il padrone impone, e credono che sia questa la vita moderna, la felicità. Sgobbano, corrono come allucinati dalla mattina alla sera, per comprarsi quello che credono di desiderare: in realtà quello che al padrone piace che si desideri. E qui non c’è nemmeno tragedia, capisci?».

Il Sessantotto era ancora lontano. Queste tesi non erano esposte per ottenere consenso. Non volevano compiacere il lettore radical . Erano sassate nelle vetrate della cultura italiana. Per questo Bianciardi morì da solo.

(A. Gnocchi, Bianciardi, il vero scrittore “corsaro”)

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