“Pour encourager les autres”

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Invito che il maestro di ballo rivolgeva alla coppia invitata ad aprire le danze (Franco Fortini, maggio 1991).

Tra il 1991 e il 1992 Franco Fortini ha stretto una relazione con un gruppo di studenti universitari milanesi. Quello che segue è un ricordo di questa esperienza scritto da coloro che vi presero parte. In assenza di registrazioni sonore degli incontri, esso si basa esclusivamente sulla memoria di ognuno di noi. La lettera a cui si fa riferimento nel testo è un manoscritto in 7 fogli a noi indirizzato e datato Ameglia 18 settembre 1991.

Nel novembre del 1990 Franco Fortini fu invitato da Andrea a partecipare al dibattito sul film inchiesta “Col cuore in gola” alla Università Statale di Milano. Egli espresse perplessità sul senso della sua presenza, ciò nonostante prese parte alla discussione e il suo intervento risultò il più seguito. Nel gennaio del 1991, iniziati i bombardamenti americani su Baghdad, Fortini era tra il pubblico di un’assemblea di studenti contro la guerra. Il 9 febbraio al termine di una giornata di controinformazione sui fatti del Golfo, sollecitato a intervenire egli dichiarò pubblicamente la sua disponibilità a “farsi mungere” da un gruppo ristretto di giovani. “Gli altri facciano quello che sanno e vogliono, io per conto mio posso solo mettere a disposizione di chi volesse alcune ore della mia settimana per parlare dello ieri, di quel che accaduto 30 e 20 e 10 e 5 anni fa. Quello che a voi non viene insegnato e quello che dovreste chiedere e che, credo, o non chiederete o se anche lo chiedeste nessuno verrà a dirvi”.

Volle che gli incontri si svolgessero in una casa privata, motivando in seguito questa richiesta con la volontà di sfuggire agli inevitabili condizionamenti che un luogo istituzionale – fosse esso un’aula universitaria o una sede di partito – avrebbe comportato. Venerdì 15 febbraio, in via Forze Armate, si svolse il primo incontro. Da allora fino alla fine di maggio ci vedemmo ogni venerdì per 4/5 ore, furono incontri regolari tanto che quando accadde che Fortini non potesse essere presente, si fece sostituire da Edoarda Masi.

Noi eravamo un gruppo di studenti di età tra i 20 e i 30 anni, nella maggior parte lavoratori, accomunati da una forte insoddisfazione per il tipo di sapere trasmesso in Università, spesso decontestualizzato e reticente. Questa si era tradotta in iniziative politiche e culturali di varia natura, tutte comunque caratterizzate dalla volontà di sperimentare la possibilità di un rapporto differente tra studenti, sapere e detentori dello stesso. Ognuno di noi considerava Fortini un interprete utile e stimolante per capire le ragioni della situazione esistente e per tentare di modificarla. Eravamo insomma consapevoli di trovarci in una situazione analoga a quella descritta da Fortini in una lettera pubblicata su ‘il libro bianco sulla legge Reale’: “… e ora mi chiedo come sarei rimasto io se, quando avevo 24 anni (1941) avessi chiesto aiuto per capire quello che ci stava succedendo, a uno di quelli che avevano avuto 40 anni all’avvento del fascismo…”.

La drammaticità degli avvenimenti di quei mesi, la cui entità era da noi paragonata quasi allo scoppio di un terzo conflitto mondiale, ci portò a capire ciò che per Fortini era da tempo chiaro: che la generazione dei nostri padri, e quindi quella dei nostri “professori”, non poteva né dirci, né aiutarci a capire “quel mondo” del quale la guerra del Golfo era una necessaria conseguenza. “Quello che è accaduto nel corso di questi ultimi due mesi è per gente della mia generazione terribile. Ma non solo terribile per la guerra guerreggiata, terribile per la velocità incredibile, di cui voi non potete rendervi conto, della velocità incredibile con la quale tutto un intero strato delle nostre menti scriventi e parlanti si è precipitato nel peggio del peggio. Ci sono delle persone che mi hanno scritto in questi giorni che solo ora capiscono che cosa è successo in Europa nel 1914, ma badate ho detto il ‘14 non il ‘39 e il ‘40 delle guerre fasciste. Quella sorta di orribile livello che è stato raggiunto dalla nostra stampa ci può lasciare soltanto la melanconica soddisfazione di fare degli elenchi di nomi. Durante la guerra capitava qualche volta di prendere qualche stazione notturna, radio, che parlando in spagnolo si rivolgeva ora a questo o a quel villaggio della Spagna dominata dal franchismo e ricordava villaggio per villaggio, sera dopo sera, chi erano quelli che in quei villaggi avevano servito la causa del generale Franco e avevano contribuito all’assassinio dei contadini spagnoli. Ricordo ancora la voce che in quelle notti diceva “recordat estos nombres!” ed elencava questi nomi. Ebbene voi dovete, noi dobbiamo, col poco fiato che ci resta, ricordare uno dopo l’altro coloro che nella televisione, nei giornali dicono le cose che hanno il coraggio di dire, le bassezze che dicono e che pronunciano in questo momento. Ce lo ricorderemo non per trarne vendetta ma per sapere che questo è possibile, che è oggi tecnicamente possibile, nel giro di pochi mesi trasformare un paese dove ancora esisteva un’ombra di opposizione in un paese in cui una città come Milano, una università come quella di Milano può riunire tutt’al più voi che mi state ascoltando e dalla parte dei docenti solo uno che non fa parte dell’università di Milano”.

Lo stesso Fortini vedeva in noi il risultato di questa circostanza, “i figli di una rimozione”. La frequentazione silenziosa di riunioni e assemblee, nei mesi precedenti l’inizio degli incontri, gli aveva permesso di constatare il bassissimo livello di coscienza politica degli studenti, al pari della loro lacunosa formazione culturale. La nostra era, a suo avviso, una condizione “pre-politica”.

Fortini non voleva che si attuasse un semplice passaggio di informazioni ma qualcosa di assai più simile alla trasmissione di un codice genetico caratterizzato da quattro informazioni principali: studiare, restare uniti, guardarsi intorno, descrivere il proprio presente. Il metodo che ci proponeva era caratterizzato dal tentativo di mantenere insieme una approfondita conoscenza teorica e una lucida descrizione della realtà. Gli strumenti che avremmo dovuto acquisire avrebbero dovuto essere: il sapere, il far sapere, il saper fare e il fare. La forma usata era quella di monologhi lunghi e complessi, raramente interrotti da qualche nostro intervento. In questa narrazione che toccava i più svariati argomenti Fortini sembrava non avere paura alcuna della contraddizione, come se ciascuna cosa potesse racchiudere in sé il suo contrario, senza perdere nulla della sua forza problematica.

A distanza di alcuni anni ci sembra possibile ritrovare un filo conduttore seguito da Fortini nelle sue conversazioni con noi: quello del ruolo svolto dagli uomini di cultura nella società italiana ed europea, dal dopoguerra sino ai giorni nostri. Quella che egli ci presentava era, come ci avrebbe scritto qualche mese dopo, una “ricostruzione del ‘romanzo familiare’ della sinistra europea”. Iniziò, così, a parlarci del rapporto tra i partiti comunisti e gli intellettuali, Gramsci e Togliatti, di Sartre e Vittorini, del “Politecnico”, “Discussioni” e “Ragionamenti”, delle prime ricerche sociologiche di Fofi e di Panzieri, di Mao e della rivoluzione culturale, di Brecht e della cultura sovietica, di Pasolini. La traccia di questa rilettura era offerta dal testo di Paul Ginsborg sulla storia italiana degli ultimi cinquant’anni. Era un modo di narrare capace di togliere la polvere che anni di scuola avevano per noi depositato su Dante e Manzoni, De Amicis e Pascoli, Goethe e Melville, Pavese e Levi.

Fortini riteneva che queste conversazioni ci avrebbero aiutato a rispondere a due domande che ci aveva posto fin dal primo incontro: quali sono i nostri desideri e quali i nostri nemici. Riteneva importante farci capire come “avversario” e “nemico” avessero significati distinti. Di fronte al nemico viene infatti meno quel quadro implicito di regole da rispettare, quell’“invisibile collaborazione dialettica” che comunque si instaura tra noi e il nostro avversario. Per Fortini esistevano “nemici del genere umano”, cioè chi sostiene forme di disumanità; in quel momento storico egli li indicava nel modo di vita americano e nel potenziale bellico mobilitato in sua difesa. A più riprese ci invitò a scrivergli lettere private in cui compilassimo la lista dei nostri nemici, o indicassimo in 100 parole “cosa avremmo voluto fare da grandi”, o cosa ci attendessimo da quell’esperienza o che adeguassimo il nostro modo di comunicare a diversi interlocutori.

Avrebbe voluto che sperimentassimo il gioco del “come se”, pensando e agendo come se fossimo un partito o una piccola organizzazione, senza mai passare dal gioco alla realtà. Questo gioco ci avrebbe consentito di sviluppare, accanto alle necessarie virtù di efficienza, l’etica comune, oggi inesistente, di una “piccola società” caratterizzata da un atteggiamento di benevolenza, di reciproca cortesia e di rispetto delle regole che ci si è dati. Ci esortava a “essere gesuiti con gli altri e giansenisti con se stessi”, vale a dire a considerare gli altri sempre come qualcosa di più della somma dei loro comportamenti e noi stessi come la somma esatta di questi. Non si trattava, insomma, di esercitarci in “una palestra seminariale”, ma di “giocare alla disciplina”, a mettere in comune tutto quel che può essere utile agli altri: il modo più serio di evitare le utopie delle sette di “sinistra”, sempre risorgenti, è verificare se e fin dove nei rapporti interpersonali determinati da comuni, anche modeste, finalità, la loro qualità e stili sono indotti e preformati da un costume sociale e se ci si propone o no di modificarli. Le minoranze minime possono evitare i difetti e le colpe delle cappelle settarie solo rischiandole (e rischiarandole)”.

Il testo integrale è pubblicato in: “La meta che non so”. Franco Fortini, “Il de Martino”, 4, 1995, pp. 97-102.

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